Articolo comparso su "Nuovo Dialogo" del 02 novembre 2018

Cresima e dopo cresima: il Progetto diocesano e le sfide di oggi

La questione educativa e gli "esercizi" che gli educatori devono fare per una conversione pastorale e missionaria

Da anni tutta la Chiesa italiana sperimenta e dibatte su cresima e dopo-cresima. Le soluzioni adottate sono le più diverse: si va dalla cresima celebrata intorno ai 18 anni in Friuli e in Trentino o, come più spesso accade, durante la preadolescenza. Pare infatti che tutti avvertano il disagio della comunicazione della fede durante questo passaggio di vita così delicato, senza però essere consapevoli di come reagire di fronte a uno scenario nuovo e preoccupante.

A livello statistico, si rileva che le regioni del Sud hanno un più alto tasso di cresime, in relazione al numero complessivo della popolazione: Calabria (1,1%), Puglia e Sicilia (1%), Basilicata, Campania e Abruzzo-Molise (0,8%). Al Nord è ancora la Lombardia a tirare le fila (0,9%), tallonata dal Triveneto (0,7%).

Il costante insegnamento dei vescovi ci ripete: l’iniziazione cristiana è “l’esperienza fondamentale dell’educazione alla vita di fede, non una delle attività della comunità cristiana, ma quella che meglio qualifica l’esprimersi proprio della Chiesa nel suo essere inviata a generare alla fede” (Lettera nel quarantesimo del Documento di base, 14).

Nella nostra diocesi dal 1992 esiste un Itinerario dell’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi che viene normalmente applicato nelle parrocchie. Negli anni scorsi l’Ufficio diocesano ha proposto una riflessione che, a partire dalla rilettura del testo, portasse ad un approccio al problema più aderente al nostro tempo. Ne è emersa una situazione abbastanza eterogenea rispetto alle soluzioni organizzative e, al tempo stesso, una diffusa fragilità della fede, con risvolti diversi per gli adulti e i ragazzi.

La meta finale di questa tappa è ben nota a tutti: “La mistagogia crismale guiderà ad una testimonianza cristiana (p.e.: non vergognarsi di essere cristiano, di pregare, di frequentare la Chiesa; vivere cristianamente lo studio, l’amicizia, le prime esperienze affettive, la famiglia, la vita sociale) e ad una vita all’insegna della carità”. Ma la proposta catechistica, i tempi e i modi non si rivelano più efficaci come accadeva nel recente passato.

Bisogna riconoscere che il focus va spostato dalle strutture, dalle tecniche o metodologie, dalle programmazioni particolareggiate, pur necessarie, alla questione educativa, in conformità all’educare di Cristo.

È quanto Papa Francesco ha autorevolmente proposto in Evangelii gaudium: “Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. […] Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (EG 25-27).

Il Convegno di Firenze ha richiesto alcuni “esercizi” che gli educatori devono porre in essere per superare le diffuse preoccupazioni di natura funzionale che attanagliano le parrocchie per trattenere qualche anno in più i ragazzi al catechismo. Nella sintesi dei lavori su “educare”, Pina del Core sosteneva che all’educatore sono richiesti “esercizi” di umiltà, per accompagnare e non forzare i percorsi di crescita; “esercizi” di disinteresse e gratuità, per non legare a sé le persone ma orientare e proporre rispettando la libertà; “esercizi” di beatitudine evangelica davanti alla richiesta delle persone di non ricevere formule ma compagnia, senza “accademie della fede” ma con la forza di una testimonianza che trasmette la fede per attrazione.

È facile rendersi conto che il problema non riguarda solo i catechisti ma che deve essere affrontato con un respiro più ampio, con l’ausilio di una riflessione comune, soprattutto in relazione all’aspetto più nevralgico dell’Itinerario di IC, cioè, la tappa mistagogica. Scrive, provocatoriamente, Enzo Biemmi: “Noi siamo delusi perché tre su quattro se ne vanno e ci rallegriamo per il quarto che resta. Ma la domanda vera dovrebbe essere: con cosa se ne vanno e con cosa resta? Se si allontano con il messaggio del kerigma nel cuore e l’esperienza di una comunità accogliente, questo costituisce il patrimonio perché ritornino, se la grazia di Dio e la loro libertà lo permetteranno. Se invece hanno dentro una visione di fede ridotta a morale e l’immagine di una comunità disinteressata, fondamentalmente rituale e poco interessante per il loro bisogno di vita, sarà difficile che tornino”.

Vale la pena recuperare la fiducia e investire nella formazione. Anni di sperimentazioni, pur rivelando tanti limiti, hanno lasciato questa certezza: le persone coinvolte, famiglie, sacerdoti, operatori della catechesi, sono usciti dalla solitudine pastorale, hanno ritrovato il gusto per il loro ministero di annuncio e accompagnamento. È il modo migliore per commentare quanto scritto dai vescovi italiani: “Con l’iniziazione cristiana la Chiesa madre genera i suoi figli e rigenera se stessa” (Il volto missionario delle parrocchie, 7).

 

Paolo Simonetti