Dopo l’Ultima Cena Gesù entra nel giardino del Getsemani; anche qui prega il Padre. Mentre i discepoli non riescono a stare svegli e Giuda sta arrivando coi soldati, Gesù comincia a sentire «paura e angoscia». Prova tutta l’angoscia per ciò che lo attende: tradimento, disprezzo, sofferenza, fallimento. È «triste» e lì, nell’abisso, in quella desolazione, rivolge al Padre la parola più tenera e dolce: «Abbà», cioè papà (cfr Mc 14,33-36). Nella prova Gesù ci insegna ad abbracciare il Padre, perché nella preghiera a Lui c’è la forza di andare avanti nel dolore. Nella fatica la preghiera è sollievo, affidamento, conforto. Nell’abbandono di tutti, nella desolazione interiore Gesù non è solo, sta col Padre. Noi, invece, nei nostri Getsemani spesso scegliamo di rimanere soli anziché dire “Padre” e affidarci a Lui, come Gesù, affidarci alla sua volontà, che è il nostro vero bene. Ma quando nella prova restiamo chiusi in noi stessi ci scaviamo un tunnel dentro, un doloroso percorso introverso che ha un’unica direzione: sempre più a fondo in noi stessi.
Il problema più grande non è il dolore, ma come lo si affronta. La solitudine non offre vie di uscita; la preghiera sì, perché è relazione, è affidamento. Gesù tutto affida e tutto si affida al Padre, portandogli quello che sente, appoggiandosi a Lui nella lotta. Quando entriamo nei nostri Getsemani – ognuno di noi ha i propri Getsemani o li ha avuti o li avrà – ricordiamo questo: quando entriamo, quando entreremo nel nostro Getsemani, ricordiamoci di pregare così: “Padre”.
Papa Francesco, Udienza generale, 17 aprile 2019